di Redazione CBR maggio 2008
La città di Milano trasformerà la sua fisionomia. L’Expo 2015 accelera il processo di cambiamento dell’arredo urbano già avviata nel corso degli ultimi anni con l’avvio di numerosi cantieri per la riqualificazione di intere aree dimesse.
A fianco della fiera di Rho-Pero, sarà allestita la nuova area per accogliere i futuri padiglioni espositivi. In mezzo dovrebbe essere costruita una torre di oltre 200 metri, il doppio dell’altezza del Duomo. Nel quartiere della vecchia Fiera – che si chiamerà City Life - saranno invece edificati tre grattacieli progettati da architetti come Daniel Libeskind, Arata Isozaki e Zaha Hadid.
Quali saranno il ruolo e l’identità della metropoli?
Chi governa deve avere a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini” - Dal Costituto di Siena del 1309
Una prospettiva storica Solo una prospettiva storica può consentire di comprendere il valore dell’attribuzione a Milano dell’Expo. L’adozione di una visuale prospettica mette al riparo da affrettati giudizi, che possono contenere certamente spunti di riflessione apprezzabili, ma che risultano tuttavia troppo parziali. L’Expo è un’opportunità data a Milano, un’occasione per sviluppare propri progetti architettonici, tutti leciti, ma inevitabilmente non ancora contestualizzati, e quindi privi di storia e di memoria, cioè già inseriti in un errore metodologico post-moderno che si affida alle tecnologie per sviluppare proprie qualità progettuali ma come fossero calati dal cielo, piovuti in terra e non adeguatamente inscritti nella storia della città. Qual è dunque la prospettiva storica in cui immettersi? Quale dovrebbe essere per le istituzioni locali, provinciali, regionali, e nazionali, la dimensione generale cui pensare per sviluppare il progetto Expo? Proviamo a dare una risposta. Se i mandati per fare il sindaco ad Albertini avevano come missione quella di gestire il trapasso da Milano città industriale a Milano città post-industriale, i mandati che ha in mano Letizia Moratti sono diversi. Raggiunto con Albertini l’obiettivo del trapasso della città dal moderno al post industriale (riqualificazione ambientale, recupero delle aree dismesse, bonifica integrale o parziale delle ex aree industriali, espulsione verso l’esterno della città delle industrie inquinanti, recupero della vivibilità urbana in termini di aria e di spazi), ora il motivo storico che oggi si profila è già un altro: quello della costruzione di una città di città, terminologia lombarda per parlare della città regione (L. Mumford), ovvero della città espansa (la Megalopoli, di J. Gottmann), ovvero del sistema urbano integrato a livello comunicativo, produttivo e distributivo (M. Castells). In pratica, pensare Milano non all’interno dei suoi perimetri storici, ma Milano intesa come cuore di un’area urbana fortemente integrata che comprende tutti i suoi 102 Comuni limitrofi, integrata in un sistema ampio di comunicazioni che toccano la Svizzera, il Veneto, la Liguria e parte del Piemonte e dell’Emilia. Un buon esempio è quello degli aeroporti, intesi come un sistema integrato di voli, che comprende quelli di Linate, Malpensa, Orio al Serio e Bellinzona, immaginati come un’unica rete di mobilità che connette l’area lombarda con l’intero mondo. Non più Milano, dunque, non più la città di Milano come siamo soliti immaginarla leggendo le mappe storiche o quelle delle sue trasformazioni sociali connesse con le immigrazioni dal sud d’Italia, ma un’area che ingloba in se stessa “l’intero mondo” (se vogliamo dirla un po’ enfaticamente, ma in modo non sbagliato), ovvero “un sistema integrato di informazioni, di voli, di opportunità tecnologiche, di aree solidali con la città che si esprimono nel loro complesso dentro e fuori i perimetri urbani, ma non più solo dentro a quelli. Un’area del tutto solidale con la Fiera di Milano, oramai decentrata a Pero e Rho, ma inimmaginabile staccata dal suo fulcro gestionale in gran parte azionato altrove, a Roma e a Milano, non meno che a Zurigo e Francoforte, a Parigi o a Londra, a New York e a Montreal. Un’area espositiva che ha superato quella che era l’immagine della “vecchia” Fiera Campionaria cittadina per trasformarsi in una vetrina aperta al mondo intero.
Le scuole di pensiero Due diverse prospettive culturali si fronteggiano davanti a questioni tanto rilevanti: la prima è quella che fa riferimento agli studi di J. Gottmann degli anni ‘70, e che accentua l’importanza delle infrastrutture. In pratica un di più, diffuso e capillare, di treni, metropolitane, traffico di superficie, aeroporti, strade, taxi, traffico pubblico e privato, e poi computer di ogni tipo e grado di complessità. Una visione tecnologica del futuro che venne criticata aspramente a suo tempo da C. Wright Mills, e in questa polemica storica troviamo spunti del tutto affini a quelli che si ripresentano adesso per Milano: una polemica che da un lato accentua l’importanza della razionalità afferente ai mezzi, alle spese infrastrutturali, all’ordine sociale, all’innovazione tecnologica, alle condizioni pratiche in cui l’esperienza dell’Expo si strutturerà. Chi volesse ridurre l’importanza di questa prospettiva, ignorerebbe una sua dimensione storica proiettata nel futuro e commetterebbe un errore spesso diffuso in Europa, piuttosto che in America, dove invece la razionalità strumentale è molto più qualificata e sviluppata che da noi. Ma chi volesse ridurre il problema dell’Expo milanese alla sua mera dimensione strumentale non coglierebbe l’interezza del problema, anzi perderebbe un tratto davvero essenziale. Quale? Quello che Wright Mills rimproverava a Gottmann: quello della nuova identità collettiva che si viene a creare, quello dello sviluppo delle municipalità autonome ma più integrate, quello del disegno generale dell’area che partecipa dunque in questa competizione internazionale, a ricostruire un proprio profilo identitario. Il tema dell’identità collettiva, quasi del dimenticato da Gottmann, e invece molto sottolineato dai suoi critici, fa riferimento al profilo antropologico e sociale del progetto, e si sviluppa oggi in forme nuove, diverse da quelle del dibattito su Megalopoli. In particolare, sono gli antropologi critici del post-moderno a metterci al riparo da tali questioni: F. Lyotard e M. Augé in particolare. Sono costoro infatti, osservatori del periodo del post-moderno con una lente d’ingrandimento molto severa, a credere che la produzione di luoghi strumentali, dove si sta sì, ma con l’intento di starci il meno possibile come nelle grandi hall d’accoglienza degli aeroporti, è un vivere che sfrutta i luoghi ma non li riempie di vita. I luoghi privati della vita degli utenti si avvizziscono, si riducono a luoghi solo sfruttati, a falsi luoghi che sono dei veri e propri “non luoghi”. Produrre una serie di non luoghi, sia pure tutti tecnologicamente attrezzati e ricchi di suppellettili e di materiali di prim’ordine, è operazione miserevole che alla fine lascia l’amaro in bocca. Luoghi senza identità per ridurre l’identità degli uomini, a loro volta ridotti nella loro umanità perché immaginati solamente come consumatori occasionali, come utenti frettolosi, come automobilisti, clienti, egoistici soggetti cui tutto è lecito e privi di doveri, insomma come quei poveri uomini in cerca d’amore occasionale che pagano un “servizio” per scambiare qualcosa che invece non è contrattabile con del danaro. Augé vede nei non luoghi la cifra della decadenza, piuttosto che l’imperio delle tecnologie. Lyotard vede in questa fase storica dominata da un progresso tecnologico cui non si riesce a tenere dietro, la fine di ogni possibile narrazione, la fine di ogni discorsività dotata di senso.
L'Expo nell'area lombarda Allora, un grande progetto umanistico potrebbe sottostare alla produzione di un’area lombarda che si prepara ad accogliere l’Expo 2015. Un progetto dove lo sviluppo tecnologico e le forme dell’integrazione territoriale legate alla mobilità e alla puntualità organizzata faranno la loro giusta e importante parte, ma che non si ridurranno solo a questo. Innanzi tutto: tra il periodo storico dominato dall’industria e quello attuale dominato dalla diffusione del computer, non c’è continuità di senso. C’è discontinuità, rottura di senso. Il post-moderno non è la continuazione del moderno, ma la sua critica e il suo superamento. Tra l’organizzazione fordista e post-fordista e quella informatizzata e robotizzata, c’è di mezzo una rottura di senso, oltre che una rottura organizzativa. Milano da tempo non è più una città industriale: le sue imprese si sono diffuse altrove, la mano d’opera non è che in piccola parte italiana, il management è oramai internazionale, la strumentazione finanziaria è connessa con le Borse di tutti i continenti, la ricerca connessa con le forme di produzione è legata a un processo conoscitivo senza più un’araldica precisa. Le sue aree limitrofe hanno definitivamente perduto le connotazioni tradizionali che le avevano caratterizzate per secoli. Cos’è rimasto oggi della religiosità cattolica un po’ bigotta e tradizionalista che conoscevamo in Brianza? Lungo l’asse Milano – Sesto - Monza – Desio – Seregno troviamo una violenta tensione laicizzante, orripilante nelle sue dimensioni piccolo borghesi di parvenus che hanno fatto la loro fortuna per decenni vendendo in tutto il mondo i mobili prodotti lungo questa dimensione storica, piccolo borghese, arricchita ma rimasta ignorante, che ha mandato i propri figli all’Università, a Milano o a Pavia, con l’idea di reinserirli nella dimensione produttiva paterna, e quindi con la prospettiva di inscrivere la razionalità nell’ambito delle forme della famiglia, ma con ciò riducendone il peso ed il senso. È un esempio, ma anche su altri potremmo insistere: ad esempio nella dimensione geografica che porta a est verso l’Adda, dove tra Milano e Bergamo, in un ininterrotto prolungamento urbano fatto di capannoni industriali, troviamo via Trezzo e Dalmine, la medesima mentalità produttivistica, sciolta dai suoi legami tradizionali e acriticamente gettata in pasto a tutti i processi massmediali e produttivistici. Ma poi anche lungo l’asse verso ovest, dove Milano si collega con Novara attraverso Magenta passando per Pero e Rho dove le ruspe della Fiera hanno spianato e urbanizzato un’area di pianura immensa. Oppure lungo la direttrice a sud, dove la città si snoda subito dopo San Donato e San Giuliano, verso Lodi, Melegnano e Casalpusterlengo, per giungere in soli 54 chilometri al Po e congiungersi a Piacenza, in un ininterrotto susseguirsi di ponti, nuove strade, costruzioni neo-moderne per lo stoccaggio delle merci. E là dove un tempo lussuriosamente viveva la stagione delle marcite e dei fontanili, ora vediamo invece fattorie rurali in disuso, oppure attraversate da successive infrastrutture, il camminamento del treno per l’alta velocità in costruzione, pioppeti per la produzione di cellulosa, creati per aree compatte, non più naturali ma diventati essi stessi artificiali, come fossero luoghi per la produzione di polli da immettere sul mercato, che del pollo conservano l’apparenza esterna, ma non più una profonda animalità, quel senso ruspante dell’esistenza che caratterizzava la vita dei loro antenati, l’essenza stessa dell’essere galli e galline.
Quale prospettiva di interventi? In breve, tutta la serie di interventi che nasceranno da quando Milano ha vinto su Smirne la sfida per portare in Lombardia Expo 2015 si svilupperanno non a Milano città, ma in un’area che ha circa 60 chilometri di raggio (Bergamo a est, Novara a ovest, Piacenza a sud, e Varese – Lecco - Como a nord), ma che comprenderà un’area limitrofa ben più vasta (a est Verona, Vicenza, Padova e Venezia; a ovest fino a Torino; a sud fino a Pavia, Piacenza e Genova; a nord fino alla Svizzera e al Gottardo). Il carattere strategico della Milano tradizionale resta ancor oggi, sia pure in un contesto del tutto mutato, e s’inscrive in un dibattito politico e organizzativo che non trascura nessuno degli elementi politici e istituzionali che formano il dibattito politico attuale: dalla crisi dell’Alitalia e del ruolo che potrebbe coprire Malpensa, alle mire politiche della Lega Nord, alle politiche verso gli stranieri, ai costi spaventosi spesi dalla Regione Lombardia per l’infrastrutturazione dell’area dei laghi a nord, agli equilibri del voto politico. È certo che l’Expo 2015 ben s’inscrive nel programma del Comune di Milano come un’occasione strepitosa dotata di un valore economico addirittura doppio di quello che venne dato a Siviglia (si parla di circa 20 miliardi di euro!). Un'opportunità unica per dare alla città la grande esposizione mondiale, dove Cina, India, Pakistan - oltre che tutti gli altri Paesi occidentali americani ed europei - potranno esibire la loro cultura, le loro tecnologie e i loro prodotti. Per un Paese come l’Italia, sottoposto al peso di un indebitamento spaventoso, e sorretto da un sistema turistico che negli scambi internazionali vede una delle sue fonti di reddito principali, più che una boccata d’aria si tratta di un vero e proprio rinnovo dell’aria da respirare. Perdere quest’occasione sarebbe imperdonabile.
da http://www.cbritaly.it/article.php?id=133
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