di Domenico Ferrari
Cosa accadrà a Piacenza nel 2006? Sarei tentato di rispondere: "Chiediamolo al fegato etrusco". Ma, a parte l'aver perso, nei molti secoli trascorsi da quando l'oggetto fu usato per l'ultima volta dagli àuguri, ogni chiave interpretativa, si frappone alla realizzazione dell'idea l'elevato prezzo al consumatore di pecore e montoni, il cui fegato dovrebbe fornire i desiderati presagi. Una risposta molto più a buon mercato è "Niente!".
Sul fatto (o meglio, sulla opinione) che Piacenza sia uno dei luoghi in cui non accade mai nulla hanno dissertato in tempi recenti su questo giornale Paolo Rizzi e Francesco Bergonzi, arrivando a proporre l'osservata o presunta mancanza di "eventi" come un elemento sfruttabile per attirare turisti e nuovi residenti (e forse anche imprese?) al territorio piacentino. La proposta è interessante e merita di essere discussa: è una di quelle che, a mio avviso, sembrano fatte apposta per un piano strategico alla cui formulazione si desidera (come è giusto e doveroso in un paese democratico) che partecipino tutti i cittadini. Questi infatti non possono essere coinvolti in complicate decisioni politiche o tecniche, quali quelle che inevitabilmente nascono quando dall'enunciazione dei grandi obiettivi si passi alla progettazione delle azioni da intraprendere, ma vanno invece obbligatoriamente sentiti proprio sui grandi obiettivi, che politici e tecnici devono poi realizzare nel migliore dei modi possibili e con le risorse che riescono a raccogliere.
Quindi, ai cittadini non si dovrebbe chiedere di generare o approvare liste di progetti sui temi più diversi e dei più svariati livelli di complessità e di costo, ma di dibattere (debitamente e onestamente informati su vantaggi e svantaggi, potenzialità e conseguenze) alcune questioni fondamentali come: "Che tipo di città e di territorio desideriamo per noi e per i nostri figli?".
I due estremi di questo dilemma sono naturalmente lo sviluppo industriale da una parte e la qualità della vita e dell'ambiente dall'altra. Poiché tendere ad uno di tali estremi escludendo totalmente l'altro sarebbe utopistico e comunque non desiderabile, la questione riguarda in realtà le proporzioni dei due ingredienti che i piacentini preferiscono per il loro futuro. Dobbiamo impegnarci per espandere e rafforzare la base produttiva, mettendo gli aspetti ambientali (e il turismo, il verde, la difesa del paesaggio e dei beni culturali) in seconda linea, o viceversa? Nel primo caso, qualunque occasione di ulteriore sviluppo, di incremento della ricchezza, sarà la benvenuta; nel secondo, essa verrà invece sottoposta ad attenta analisi e, se non passerà i test ispirati dai desideri della maggioranza dei cittadini, dovrà essere rifiutata; in questo caso, verranno preferite tra le nuove attività quelle che migliorano l'ambiente, incentivano le produzioni tipiche e favoriscono la fruizione del territorio da parte di turisti, cultori della natura e delle cose d'arte e di storia, dell'enogastronomia; anch'esse portatrici di sviluppo, di occupazione e di ricchezza, ma forse non quanto quelle di tipo puramente industriale.
Uno degli eventi che sappiamo accadranno a Piacenza nel 2006 è la seconda edizione degli Stati Generali. Mi permetto di dare questo suggerimento agli organizzatori: si utilizzi questo strumento per far parlare i cittadini, e li si ascolti. Si chieda loro di dare alle pubbliche amministrazioni locali un indirizzo preciso sul modello di territorio che essi preferiscono. Si apra e si alimenti un dibattito a cui tutti siano invitati e stimolati a partecipare, e lo si faccia senza secondi o terzi fini. Con la stessa onestà con cui si richiederà questo indirizzo, si produca un piano che, in tempi ragionevoli, ci avvicini all'obiettivo indicato, e lo si realizzi con serietà e senza esitazioni. Se i cittadini decidono che la produzione industriale è più desiderabile, non ci si lasci bloccare dagli ambientalisti o dagli abitanti direttamente coinvolti; scelto il luogo più adatto per un nuovo insediamento industriale, di qualunque genere esso sia, si proceda speditamente alla sua realizzazione ("i piacentini hanno voluto così"); se invece deve prevalere la qualità della vita, si valuti attentamente l'impatto ambientale e paesaggistico del complesso proposto e si abbia il coraggio di bloccare subito il progetto se esso non corrisponde ai criteri fissati secondo il volere dei cittadini. Ma non solo: si incentivino gli investimenti nelle attività che si vogliono promuovere, e si intraprenda una attiva opera di bonifica del paesaggio con grandi investimenti in alberature, siepi e cespugli che attenuino le brutture autorizzate negli ultimi decenni proprio dagli stessi amministratori che dicevano di voler espandere turismo, salute, qualità della vita.
Tornando alla proposta di pubblicizzare Piacenza come un posto tranquillo, arcadico, dove la qualità della vita di chi ci abita è ciò che maggiormente interessa a tutti, è opportuno chiedersi se questa sia una descrizione veritiera o ingannevole. Certo, se ci confrontiamo con Milano, si può sostenere che questo è vero. Ma, se Milano è l'inferno (e lo è), Piacenza è il paradiso? No, direi che è soltanto il purgatorio, un purgatorio che, per certi versi, tende sempre più verso l'inferno. Chi si trova sempre più spesso bloccato nel traffico delle circonvallazioni, di Via Colombo, di Via Emilia Pavese; chi vorrebbe sempre più frequentemente viaggiare con una carica di dinamite per far saltare la sua macchina quando non trova un parcheggio nemmeno a comprarlo; chi respira l'aria inquinata (e puzzolente) senza riuscire ad abituarsi; chi è costretto a guidare, da persona ragionevole, nella giungla delle strade dove regnano gli assatanati costantemente affacciati al suo lunotto posteriore e i plantigradi che menano in giro per decine di chilometri codazzi di decine di automobili a passo di funerale; chi è orripilato dalla quotidiana strage di giovani sulle strade stesse; chi è costretto a prendere tutte le mattine, per raggiungere il suo posto di lavoro, un treno che merita un titolo in prima pagina quando è in orario; chi vede con orrore come sono state conciate le nostre campagne, forse capisce ciò che voglio dire. Il punto è questo: per diventare il paradiso che sarebbe bello pubblicizzare, e in cui sarebbe bello vivere, dobbiamo rimboccarci le maniche, cari concittadini; altrimenti, in che cosa si può distinguere Piacenza da altri "paradisi" come Pavia, Cremona, Novara, Bergamo e così via, se non nell'essere più addormentata?
Sì, lo so, ho il vizio di "parlar male" ("inter nos") di Piacenza e di noi piacentini. In realtà, penso che sia più utile descrivere il bicchiere come mezzo vuoto, pur sapendo che è anche mezzo pieno (certamente, non è tutto pieno, come qualcuno vorrebbe farci credere). Non è con l'autocelebrazione che si migliora: si va avanti solo se ci rendiamo chiaramente conto dei nostri difetti e dei nostri problemi, e se siamo determinati a correggerli e a risolverli.
Chi sostiene che "tutto va ben" (e ce ne sono parecchi qui da noi: l'inquinamento da melassa è ancora più diffuso di quello da benzene, e non meno nocivo) non ama tanto Piacenza quanto chi, per migliorarla, e con rammarico, dice tutta la verità.
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