di ANDREA ROMANO
Prendersela con Romano Prodi è ormai diventato costume quotidiano di amici e avversari.
Ma perché Veltroni dovrebbe riuscire là dove Prodi rischia di fallire?
Dove si nasconde l'arma segreta con cui il centrosinistra confida di ribaltare un equilibrio dei consensi per ora tanto sfavorevole? Se si trattasse solo di un bisogno di maggiore freschezza o di tutto ciò che compone la magia del carisma, la maggioranza potrebbe utilizzare le intelligenze comunicative di cui dispone per una sana offensiva di immagine. Non sarebbe né la prima né l'ultima volta, d'altra parte, che un governo appannato da contingenze di varia natura viene tirato a lucido dal sapiente intervento di strateghi dell'immagine.
Ma la questione è politica, come si usava dire un tempo, e come tale dovrebbe essere considerata. Il logoramento non è nella prestanza personale o nel linguaggio di Romano Prodi, che con i suoi peculiari strumenti carismatici ha saputo vincere due elezioni tutt'altro che facili a distanza di un decennio, ma nella formula di governo che il centrosinistra presenta oggi al Paese. È la qualità della sua offerta politica ad essere ormai esausta, quella confusa composizione tra riformismo debole e massimalismo baldanzoso che nelle condizioni parlamentari in cui si trova la maggioranza produce la palude immobile nella quale stanno affondando le speranze di questa legislatura. Una palude nella quale solo Silvio Berlusconi sembra trovarsi a proprio agio, avendo ritrovato nel giro di poche settimane l'entusiasmo del combattente elettorale che è sempre stato e dando fondo al suo migliore repertorio di propaganda.
Eppure da quella palude il centrosinistra dovrà prima o poi provare a uscire. E affidarsi alle sole virtù taumaturgiche di un nuovo leader, fresco quanto si vuole ma forse incapace di apportare la minima modifica a una formula di governo deteriorata, rischia solo di rimandare di qualche mese la sconfitta. L’occasione per tentare di estendere al Paese quella sorta di «effetto Viagra» che Veltroni ha prodotto sulle proprie truppe ci sarebbe già, se le primarie per la sua incoronazione facessero emergere una proposta politica diversa da quella di questi mesi.
Finora la retorica del prossimo leader ha dato i brillanti risultati che c'era da aspettarsi, ma i confini della sua proposta restano in tutto e per tutto identici a quelli odierni: contro la stagnazione ma anche contro la precarietà, tanto di riformismo e tanto di massimalismo, alleati di Rifondazione ma aperti verso il centro. È il gioco degli ossimori che sta impallando la maggioranza, nell'incapacità di scegliere con chiarezza una strada riconoscibile dal Paese.
Le sole candidature diverse da quella di Veltroni sembrano fino a oggi qualificarsi su un terreno più personale che politico. Sia Rosy Bindi che Enrico Letta, quando scenderanno in campo, lo faranno sicuri di una sconfitta onorevole e per la legittima aspirazione a marcare un territorio dentro l'area non diessina del Partito democratico. Ma quanto ci sia di politico nella loro candidatura sarà materia di raffinata interpretazione filologica.
L'unica vera alternativa politica all'ecumenismo veltroniano è finora venuta da chi ha già dichiarato di non volersi candidare. Ed è Francesco Rutelli con il suo cosiddetto «manifesto dei coraggiosi», ad oggi la più onesta presa di coscienza delle difficoltà del centrosinistra e la più puntuale indicazione di una strada per uscirne. Compresa la possibilità che il Pd possa proporre al Paese «una alleanza di centrosinistra di nuovo conio» che non significa l'annuncio di oscure connivenze con il berlusconismo ma la prospettiva di uno sganciamento dall'abbraccio mortale con Rifondazione.
In un partito normale, si tratterebbe di una classica piattaforma politica su cui costruire un tentativo di leadership. Si dice cosa si pensa, si chiede il consenso, si gioca una partita. Ma così non è.
E per ora dobbiamo accontentarci di quella che somiglia a una riedizione delle «adesioni motivate» di tradizione Pci. Quando il monolitismo della leadership non poteva essere messo in discussione, si sosteneva il segretario ma si marcava un sottile punto di distinzione leggibile solo con le lenti degli addetti ai lavori. Almeno fino alla prossima puntata.
Resta il fatto che l'impossibilità di tradurre una precisa linea politica in un'altrettanto precisa candidatura rivela l'afasia in cui continua a baloccarsi il centrosinistra, nella convinzione che per uscire dalla crisi di consensi sia sufficiente una spolverata di freschezza senza scossoni per la geografia interna dell'alleanza. Ma allora, vale la pena ripetere, perché Prodi no e Veltroni sì?
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