Tra serrande abbassate, toilette inesistenti e chiese inaccessibili
Una gita fuori porta entro le mura. Armati di zainetto, macchina fotografica e cartina sgualcita. Pure con lo sguardo vacanziero trasognato, da gitante nipponico. Ieri, lunedì dell'Angelo, ci siamo travestiti da turisti. Letteralmente. Per vedere e raccontare Piacenza con gli occhi di chi, prima, la conosceva solo come snodo autostradale. E scoprire come il capoluogo dalle cento chiese accoglie i visitatori. Bene o male? Giudicate voi. La nostra escursione comincia da via IV Novembre, dove troviamo parcheggio, in righe bianche, con relativa facilità. Ovviamente, fingiamo di trovarci spaesati, e chiediamo lumi ad un signore che ci indirizza - via Facsal - sul Corso. «Da lì si raggiunge tutto ciò che c'è da vedere» dice con fare sibillino. Fiduciosi, iniziamo la passeggiata.
Prima sensazione: vuoto. I negozi sono chiusi, in giro s'incrociano poche persone e quasi tutti i bar hanno le saracinesche abbassate. La città d'arte assomiglia di più ad una città fantasma. D'accordo, è Pasquetta, ma essere quasi gli unici all'ora di pranzo nel centro storico può essere una sensazione rilassante da un lato, lievemente preoccupante dall'altro. Di altri turisti non ne intravediamo, e sarà una costante di tutta la scampagnata.
Con passo placido, giungiamo in piazza Cavalli. Prima tappa obbligata: ufficio turistico. Una ragazza cortese ci dà una guida blu con intarsi rossi, "Piacere, Piacenza", e ci suggerisce quattro hot spot: duomo, Sant'Antonino, Santa Maria di Campagna e Museo di storia naturale. A piedi una mezza maratona, ma l'impressione è che il ventaglio di proposte, oltre, non offra molto: la Ricci Oddi ed il Collegio Alberoni, infatti, non sono visitabili. Glissiamo perciò sulle esposizioni di Palazzo Farnese - c'è l'obbligo della visita guidata - e sulle mostre di Valerio Saltarelli Savi e Mario Branca allo Spazio Costa - fino alle 4 c'è chiuso -, e ci incamminiamo per via XX Settembre.
Ecco la cattedrale. Entriamo durante una funzione, ed in silenzio cerchiamo qualcosa che racconti la vita della costruzione iniziata nel 1122. Il nulla totale. C'imbattiamo in due macchinette con voce-guida in quattro lingue, ma ci vogliono per forza due monete da 20 centesimi (che non abbiamo). L'etichette che accompagnano i capolavori di Caracci e Procaccini sono sporche; la descrizione della vasca battesimale paleocristiana è solo in italiano. In sostanza, un luogo di culto vero, dove il turista, per ora, non è troppo contemplato.
E' l'una, e la pancia brontola. L'ideale sarebbe un panino veloce, con relativo relax al tiepido sole in qualche tavolino all'aria aperta. Pura chimera. A vista (escluso il Ranuccio), non scorgiamo un locale disponibile. Ripieghiamo per una pizza in un ristorante aperto in piazza Cavalli: servizio buono, ma fuori non c'è il menu in inglese. Se non si parla l'idioma di Manzoni, non si ha idea di cosa la pizzeria possa offrire. Riparte il giro.
La seconda tappa sacra è il santuario di Santa Maria di Campagna. Le cose, finalmente, sono a misura di forestiero. Accanto all'entrata si possono trovare guide - ad offerta libera - in varie lingue, ed una signora gentile ad un banchetto non lesina informazioni dettagliate. Piccolezze, che fanno davvero piacere.
Torniamo verso il centro. E se ci fosse una necessità fisiologica? Passando verso il Gotico troviamo una freccia che indica una fantomatica toilette. Dove, però, non è dato sapere. Il bagno non riusciamo a scovarlo. Ci sono vari portoni imponenti, rigorosamente chiusi. Proprio ad un passo dal Comune, non una bellissima figura.
Il lungo giro ci porta fino in Sant'Antonino. La giovane all'ufficio del turismo ci aveva detto che la chiesa sarebbe stata aperta. Così recita anche l'orario affisso alle grate d'entrata. Tutto tace, invece. Aspettiamo con pazienza assieme ad una famiglia milanese, dieci minuti, venti minuti, mezz'ora. Nulla. Non ci sono cartelli che avvisano di chiusure per Pasquetta. Ma pare che sia così.
Intristiti, salutiamo i meneghini e scendiamo per via Scalabrini, direzione Museo di storia naturale. Qui, tra donnole, lupi e cinghiali, le cose vanno decisamente meglio. Una receptionist premurosa ci avverte che l'ingresso è gratuito, e ci spiega come sono strutturate le stanze. C'immergiamo nella flora piacentina, respiriamo il gusto della collina e della montagna. La visita finisce subito, usciamo soddisfatti. Ancora una volta, le descrizioni sono solo in italiano. Ma è il classico pelo nell'uovo.
Il sole sta calando, l'aria pungente si fa sentire. Decidiamo di concludere la gita emiliana. Tornando all'auto, scopriamo che, forse, la vita vera era sul Pubblico Passeggio. Pieno zeppo di famiglie, bimbi, mamme col passeggino. C'è qualcosa che non torna? Alessandro Rovellini, Libertà del 25/3/2008
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