La rinascita di un'opera d'arte incontra sempre il consenso e l'unanime favore della comunità.
Ed infatti, a suggello delle parole di Franco Zoni, presidente del Rotary Valli del Nure e della Trebbia, un pubblico numeroso, tra cui diverse autorità, ha assistito alla presentazione dell'intervento di restauro, reso possibile grazie alla liberalità del circolo piacentino, di un prezioso dipinto del primo '500 completo di cornice originale, una Madonna con il Bambino, San Giovannino e Sant'Elisabetta proveniente dalla chiesa di San Martino di Rivalta.
All'evento, ospitato dalla Cappella Ducale del Farnese (i cui Musei custodiranno la piccola pala sino al prossimo ottobre, per consentire a tutti di ammirarla, prima del ritorno a Rivalta) hanno partecipato, oltre alla stesso Zoni, il funzionario della soprintendenza di Parma e Piacenza Davide Gasparotto, che, ipotizzando una possibile attribuzione della tela, ha sovrinteso al restauro eseguito da Silvia Ottolini, l'assessore alla cultura Alberto Squeri e don Angelo Bisioni, parroco della chiesa di Rivalta.
La piccola pala, probabilmente date le dimensioni ridotte, oggetto di devozione privata, forse destinata a decorare una piccola cappella di famiglia, si presta, per svariate ragioni, a sollevare l'interesse di uno storico dell'arte, come ha sottolineato lo stesso Gasparotto illustrandone nel dettaglio aspetti stilistici e valenze iconografiche: innanzitutto la peculiare tecnica d'esecuzione, tempera su tela, della quale abbiamo alcuni riscontri nell'arte dei maestri fiamminghi d'inizio '40 e, rimanendo in territorio nazionale, nella personalissima lezione del Mantegna, ma che certamente risulta poco utilizzata in confronto al cinquecentesco imperversare della tecnica ad olio (su tela) o, compiendo un passo a ritroso, della tempera su tavola largamente utilizzata nel secolo precedente.
Eppure, consultando approfonditamente le fonti autorevoli ed alcuni carteggi dell'epoca, Gasparotto ne trova descrizioni dettagliate sia nel Vasari, che la definisce «pittura a guazzo» che nei rigoroso resoconti lasciatici dal nobile veneziano Marcantonio Michiel all'inizio del '500, il quale, discorrendo a proposito di collezioni private che aveva avuto modo di visitare, parla di alcune opere eseguite alla «maniera dei pittori delle Fiandre». Ancora, in un Ricettario del '400 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (n. 1247), l'anonimo autore indica le modalità di preparazione di tela e pigmento per la «tempera a colla».
Per quanto invece concerne una possibile paternità della pala, sommariamente ascritta ad area d'influenza cremonese in occasione della sua prima esposizione alla Mostra d'arte Sacra tenutasi a Piacenza nel 1926, Gasparotto non solo ne rivendica la gravitazione in orbita lombarda, ma individua nel pittore lodigiano Alberto Piazza, nato sul finire del '400 in una illustre famiglia d'artisti, il plausibile autore.
Tesi supportata dal confronto con altre opere del pittore, quali il grande polittico, datato al 1514, della Cappella Berinzaghi nell'Incoronata di Lodi.
Infine, l'intervento della Ottolini ha mostrato, attraverso l'ausilio di supporti audiovisivi, il terribile, anzi pessimo stato di conservazione, come è stato definito dalla stessa restauratrice, dell'opera, reduce da un disastroso primo tentativo di recupero eseguito nel 1968, con l'unico risultato di aggravarne le già precarie condizioni: non solo sia tela che tavola di supporto avevano subito una massiccia aggressione da parte di tarli, ma nelle zone superiori la prolungata esposizione in ambiente umido aveva generato vistose colature di colore ed estese chiazze scure. Erano presenti inoltre lacerazioni, e, nella sezione inferiore, un vistoso distacco di pigmento, anche se per fortuna, la linea del disegno restava nettamente visibile.
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