I settant’anni dell’economista Salvati
Il principio della libertà economica ha davvero la possibilità di entrare fra i capisaldi della cultura di sinistra?
Non è escluso, in apparenza, a giudicare dall'attenzione che stanno riscuotendo la provocazione di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore) e l'invito a una «rivoluzione liberale» che viene da un economista da sempre schierato a sinistra, Michele Salvati, uno studioso che non si è limitato alle esortazioni ma ha anche praticato la politica attiva (è stato deputato dei Ds nella passata legislatura), fino a diventare uno dei più fervidi sostenitori delle ragioni a favore del Partito Democratico.
Proprio la facoltà in cui da anni Salvati insegna, quella di Scienze politiche della Statale di Milano, si appresta a festeggiare oggi i suoi settant'anni con un convegno che proporrà una riflessione sui rapporti fra economia e politica, l'asse del ragionamento che Salvati svolge da un trentennio a questa parte.
La coerente logica liberaldemocratica che oggi, secondo Salvati, dovrebbe qualificare il nascente Pd rappresenta tutt'altro che un approdo scontato per un intellettuale che aveva mosso i suoi primi passi nell'ambito della sinistra più eterodossa. Allievo di Paolo Sylos-Labini, Salvati ha fatto parte dei gruppi che hanno anticipato il Sessantotto: giovanissimo ha collaborato ai Quaderni Rossi di Raniero Panzieri, poi è stato uno dei principali animatori dei Quaderni Piacentini. Un uomo formatosi nel raggio della sinistra extraparlamentare, dunque, ma con un saldissimo ancoraggio al mondo degli studi, che per un po' ha legato il suo impegno accademico a quella facoltà di economia dell'Università di Modena catalizzatrice di un marxismo critico, affascinato dalla ripresa dell'approccio classico ai problemi economici suscitato da Piero Sraffa, l'eccentrico economista amico di Gramsci, che aveva lasciato l'Italia fascista per stabilirsi definitivamente a Cambridge.
Che cosa ha spinto uno studioso con questo retroterra a spendere appassionatamente le proprie energie per un progetto di riformismo che rompe senza indulgenze con gran parte dell'armamentario culturale della sinistra? La risposta sta nell'analisi del capitalismo italiano e dei suoi caratteri specifici, che è diventato il tema di ricerca di Salvati fin da quando incominciò a interrogarsi sulle origini della crisi italiana degli anni settanta. Ciò mostra quanto sia superficiale l'analogia con le tesi di Alesina e Giavazzi: per loro, i mali dell'Italia si curano attraverso un tuffo integrale nel mercato, senza più ripari o protezioni di sorta. Tutta la vita economica e sociale del nostro Paese può essere risanata esclusivamente con un'esposizione integrale ai meccanismi della concorrenza. Non serve altro che andare a lezione della cultura anglosassone e imparare dall'esperienza delle realtà dove il mercato è più forte e più libero. Ci penserà il suo funzionamento, di per sé virtuoso, ad attuare una selezione che gli interessi consolidati, difesi da comodi e potenti schermi protettivi, hanno fin qui impedito.
Per Salvati, invece, l'accento non cade sul mercato bensì sul capitalismo. O meglio sui differenti modelli nazionali di capitalismo e sulla variante specificamente italiana.
Nel suo schema non c'è posto per nessun primato dell'economia. Al contrario, per comprendere la società italiana occorre analizzare l'interazione fra l'economia, la politica e le istituzioni: è dalla loro combinazione che deriva l'assetto presente, col quale dobbiamo fare i conti. Non basta perciò limitarsi a richiedere spazio più ampio per il mercato, se non c'è una proposta rivolta all'involucro politico e istituzionale che forma un tutt'uno col sistema economico e sociale. Ecco perché la storia gioca un ruolo così importante nello schema di Salvati, mentre i sostenitori della supremazia del mercato sembrano quasi indifferenti alla dimensione del tempo. Ed ecco anche perché le idee di Salvati, pur con la curvatura liberale che hanno subìto, mantengono un inconfondibile timbro di sinistra.
Sul piano dei risultati culturali, il lavoro che ha condotto Salvati appare meritorio, perché ha creato un terreno d'incontro fra le discipline, attraverso il dialogo con politologi, sociologi e storici. Altro invece è il discorso sulla sua efficacia politica, considerate le grevi logiche d'apparato che hanno finora presieduto alla nascita del Pd. Forse non rimane che sperare, con Keynes, che alla lunga la forza delle idee prevalga sull'inerzia degli interessi consolidati.
GIUSEPPE BERTA, La Stampa del 12 ottobre 2007
|