Il «partito unico», come è stata battezzata la proposta di Berlusconi alla Camera, può ricordare i regimi autoritari e le democrazie popolari: sistemi in cui la funzione di una forza politica è semplicemente quella di organizzare il consenso a profitto di un leader e di stroncare qualsiasi opposizione. Ma tali riflessioni sarebbero, in questo caso, fuori luogo. Se Berlusconi riuscisse a realizzare il suo progetto, la democrazia italiana diventerebbe più matura ed efficace. Come nel 1994, quando convinse Romano Prodi a scendere in campo e a creare una coalizione di centrosinistra, il premier avrebbe il merito di suscitare nell'opposizione un progetto analogo e di rafforzare coloro che lavorano da tempo con lo stesso scopo. Continuerebbe a esistere, come nelle grandi democrazie bipartitiche, qualche forza minore, desiderosa di conquistare l'attenzione della società. Ma la battaglia per il governo si organizzerebbe intorno a due grandi partiti alternativi.
Assisteremmo a una salutare semplificazione del sistema. Uscirebbero di scena, finalmente, molti partiti "identitari", regionali o corporativi che hanno condizionato per decenni la vita politica. Scomparirebbero le forze del 3 o del 5% che hanno esercitato, e continuano a esercitare, un potere irragionevolmente superiore alle loro dimensioni. E ci verrebbe risparmiato lo spettacolo dei piccoli leader e delle piccole nomenklature che vivono, come è accaduto anche nelle ultime regionali, di mercanteggiamenti e ricatti.
Saremmo forse una democrazia più povera? Non credo. Le grandi ideologie si sono appannate e le sovranità nazionali si sono progressivamente rimpicciolite. Chi conquista il potere scopre rapidamente che le scelte, quale che sia il suo programma, sono drasticamente limitate dall'Unione Europea, dall'Organizzazione mondiale del commercio, dalle agenzie dell' Onu, dalle convenzioni internazionali, dalle corti di giustizia supernazionali e dalla interdipendenza dell'economia globale. Quando un nodo arriva al pettine le soluzioni sono generalmente due: una più sensibile ai professionisti del mercato, l'altra più attenta alle esigenze dei lavoratori dipendenti e dei ceti sociali meno favoriti. Certi programmi sbandierati nelle campagne elettorali sono una perdita di tempo o, peggio, una bugia.
Resta da capire se il progetto di Berlusconi abbia qualche possibilità di vedere la luce. Le grandi unificazioni o federazioni vincono la resistenza delle nomenklature concorrenti quando hanno almeno due caratteristiche. In primo luogo debbono essere fatte da un leader vincente nel momento in cui il suo prestigio offre a tutti una ragionevole speranza di successi futuri. In secondo luogo il federatore deve dimostrare che la nuova casa sarà accogliente e che i partiti minori non saranno alloggiati in solaio o in cantina.
La prima condizione, purtroppo, non esiste. Se Berlusconi si fosse messo al lavoro subito dopo la vittoria del 2001, l'annuncio di avant'ieri sarebbe più credibile. Oggi, dopo una sconfitta e alla fine della legislatura, il suo «partito unico» può sembrare una manifestazione di amarezza e disappunto per i compagni di governo che lo hanno costretto a dimettersi. Se sono concepite all'ultimo atto le buone idee suscitano generalmente diffidenza. Accadde a Napoleone quando commissionò a Benjamin Constant una costituzione liberale durante i «cento giorni». Accadde a suo nipote quando cercò di creare, verso la fine del Secondo impero, uno Stato liberale. E accadde a Mussolini quando si ricordò, alla fine della sua vita, di essere repubblicano e socialista. Mi affretto ad aggiungere che nessuno di questi tre personaggi, beninteso, gli assomiglia. 28 aprile 2005 Sergio Romano Corriere della Sera del 28/4/2005
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