L'analisi di GIORGIO RICORDY
Nonostante i giudizi negativi sul senso politico della sua nomina, il nuovo ministro dell'Economia seguita a godere di una buona reputazione come economista anche fra i più irriducibili avversari dell'attuale governo: adesso è chiamato ad una difficile dimostrazione del suo valore. I virtuosismi contabili usati fino ad ora per mantenere i dati ufficiali di bilancio su binari accettabili dall'Europa e dai mercati stanno, uno ad uno, perdendo il loro effetto sotto l'urto della realtà: la necessità di attuare una manovra correttiva (è dal '96 che non vi si faceva più ricorso) e il declassamento del rating da parte di S&P ne sono stati la prima conseguenza tangibile. Il giudizio pessimistico sull'aggiustamento dei conti 2004 espresso dalla missione del Fmi - giunta in Italia proprio al culmine della crisi in atto - pone una nuova ipoteca sull'efficacia della correzione introdotta. E per il 2005, mettere insieme una manovra che permetta di contenere il deficit entro il 3% e contemporaneamente di destinare alle annunciate riduzioni fiscali i 12 miliardi di cui si parla si profila, al momento, come una «mission impossible». E lui non è Tom Cruise. Il Dpef che dovrebbe vedere la luce alla fine della prossima settimana non dovrà contenere il dettaglio delle misure che poi verranno adottate con la legge Finanziaria, ma dovrà indicarne natura e obiettivi: già in questa fase, quindi, la serietà del lavoro di cui Siniscalco ha accettato di assumere la responsabilità potrà cominciare a manifestarsi. Per prima cosa vi si dovrebbe trovare una messa a punto dei dati di previsione che renda giustizia delle stime artefatte sulle quali in passato sono stati costruiti bilanci rivelatisi, anno dopo anno, sbagliati per eccesso di ottimismo. Poi si dovrebbe prendere atto del mancato raggiungimento degli obiettivi indicati con la precedente Finanziaria (ad esempio, il mancato gettito del condono edilizio e del concordato preventivo, la stasi delle cartolarizzazioni, il calo delle entrate tributarie) e quindi rivedere i saldi finali e quantificare in maniera finalmente trasparente le correzioni da introdurre. A quel punto, è verosimile che il deficit tendenziale 2005 risulterà più vicino al 5 che al 4%. Per contenerlo entro il 3% ci vorrebbe, perciò, una manovra pari a 2 punti, cioè circa 26 miliardi di euro. Se a quelli si aggiungono gli sgravi fiscali si arriva vicino ai 40 miliardi, cioè molto prossimi alla dimensione della manovra del 1992, rimasta scolpita nella memoria nazionale per le lacrime e sangue che costò al Paese. Gli interventi di cui si parla, del resto, fanno temere il peggio. La vendita degli immobili della pubblica amministrazione per poi conservarne l'uso pagando l'affitto ha tutti i connotati di una dichiarazione di prefallimento: si incassano subito soldi che poi bisognerà pagare, anno dopo anno, aumentando vistosamente la spesa corrente. I tagli ai fondi per le amministrazioni decentrate - Regioni, Province, Comuni - stanno suscitando una vera rivolta di sindaci e «governatori», consapevoli di essere costretti a ridurre o rincarare i servizi erogati ai cittadini. La decurtazione dei finanziamenti alle imprese e all'occupazione nel Sud è l'esatto contrario di quella «scossa» che tutti dicono necessaria per alimentare la crescita. Il taglio dei fondi destinati ai rinnovi contrattuali fa prevedere un nuovo inasprimento dei rapporti sociali oltre che rappresentare un ulteriore taglio al potere d'acquisto delle famiglie. In cambio di tutto ciò, una riduzione dell'Irpef che riguarderà prevalentemente i redditi medio alti non ha l'aria di essere una contropartita convincente. Tuttavia al nuovo ministro dell'Economia spetta di assumerne tutta la responsabilità.
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