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sabato
23
settembre
2023
San Lino, papa



La difficile pietas

di Mons. Gianni Ambrosio, Vescovo Diocesi Piacenza e Bobbio

1. Tutte le culture attestano, in modalità e con accentuazioni diverse, il rispetto per i morti. Nell’antichità romana, onorare i defunti fa parte della pietas.
Per chi ha qualche reminiscenza di sudi classici, viene spontaneo associare la pietas all’eroe troiano Enea.
Egli è appunto qualificato come pio: perché devoto agli dei e, insieme, perché pieno di rispetto per i suoi cari.
Come racconta l’Eneide, Enea si fa carico, durante la fuga da Troia, sia del figlio sia del padre Anchise. Così l’antico mito di Enea è diventato un’icona della pietas, un sentimento ritenuto fondamentale, una disposizione radicata dell’animo umano che, secondo Cicerone, è dovere (officium) e cura (cultus), capace di dare senso alla storia umana, di conferire solidità e continuità alla famiglia, di preparare il futuro: Enea si carica sulle spalle l’anziano Anchise (la storia ) e tiene per mano il giovane Ascanio (il futuro).
Il pius Enea manifesta non solo il suo affetto verso il padre e il figlio ma riconosce anche il suo essere debitore nei loro confronti, e, per estensione, verso tutti.
Anche verso coloro che sono morti, da ricordare, da rispettare, da onorare.

2. Che ne è oggi della pietas verso i morti?
L’interrogativo che mi è stato posto è interessante, ma la risposta è difficile.
Provo a offrire qualche cenno di risposta, partendo da un piccolo esempio.
Partecipando ad un funerale in una grande città, si ha l’impressione di non scorgere la tradizionale pietas.
D’altronde si potrebbe dire, con un po’ di forzatura, che la città non ha la possibilità di onorare i morti, almeno nella forma tradizionale di tale onore.
Le esigenze della vita urbana non concedono la possibilità di fermarsi. E poi la vita urbana non ha più nulla di comunitario.
Un tempo, tutta la comunità in un certo modo si fermava quando le campane avvisavano che qualcuno stava attraversando l'agonia e la morte: tutti avevano un momento di silenzio e forse di preghiera.
Quando in una grande città è previsto il corteo di automobili per accompagnare il defunto al cimitero, è istruttivo osservare la dispersione di ciò che vorrebbe essere un corteo funebre.
Le automobili si infilano nel traffico e si disperdono ai vari semafori.
Lo stesso carro funebre, nel traffico cittadino, diventa una delle tante vetture, anche se un po’ particolare: è bene non prestarvi attenzione, anzi è opportuno volgere lo sguardo dall’altra parte. Spesso, in parecchie città, il corteo non è più in uso.
Poiché la vita urbana non può arrestare il suo ritmo, il corteo funebre non ha più senso, come non hanno più senso molte altre espressioni tradizionali: tutto avviene in forma privata, quasi alla chetichella, nella piccola cappella di un ospedale o del cimitero.
Anzi, soprattutto in città si tende ad evitare non solo il corteo funebre ma anche il funerale e la stessa inumazione.
Si diffonde infatti la cremazione, presentata dall'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti come “una pratica igienica ed ecologica che permette di ridurre considerevolmente gli spazi e i costi destinati ai defunti, evitando nel contempo lo squallore del proprio corpo”.
Oggi la cremazione è praticata da circa l’8% della popolazione italiana, ma in alcune grandi metropoli del Nord la percentuale delle cremazioni è assai più elevata, arrivando in alcuni casi ad eguagliare le sepolture.
Al di là delle intenzioni di chi sceglie la cremazione ‑ di certo non tutte secondo le dichiarazioni dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti ‑, non vi è dubbio che questa pratica, soprattutto con la dispersione delle ceneri, comporta una diversa visione del corpo, oltre che un diverso rapporto tra il defunto e i familiari.
Ma torniamo al nostro piccolo esempio.
Dopo il funerale anonimo e freddo celebrato in città, la salma è stata portata nel paese di origine per essere sepolta nella tomba di famiglia. Nel contesto rurale tutto cambia.
Anche gli atteggiamenti delle persone cambiano. Innanzi tutto c’è un gruppo di persone davanti alla chiesa o davanti al cimitero per attendere l’arrivo della salma. Così familiari che da anni non si incontravano si salutano e si abbracciano, amici di cui si ha un vago ricordo esprimono le loro condoglianze. In questo contesto di relazione umana, di vicinanza, di conforto anche quelle preghiere da tempo dimenticate ridiventano significative.
Se in città pochi hanno dato peso alla benedizione del prete, ora tutti – anche i più distanti dalla pratica religiosa ‑ fanno il segno della croce.
Nel caso cui sto accennando, l’anziano marito era conosciuto come militante comunista, dichiaratamente ateo e per di più anticlericale.
Egli si avvicina al prete che ha voluto essere presente al cimitero per benedire la salma della moglie prima della inumazione.
Con le lacrime agli occhi l’anziano vedovo dice al prete: “Reverendo, grazie, sono contento che Lei sia venuto, mia moglie desiderava questa cerimonia”.
Ma la ‘cerimonia’ in qualche modo continua: l’anziano vedovo – ottantenne ‑ ogni settimana parte con la sua auto da Torino per recarsi al paese a deporre un fiore sulla tomba ove è sepolta la sua sposa. E forse, su quella tomba, si può anche sentire una furtiva preghiera recitata da chi non esitava a dichiarare il suo ateismo.
Sembra quasi, senza forzare il mistero del cuore di quell’anziano ateo, che il piccolo cimitero del paese sia ridiventato, al di là di ogni aspettativa, un effettivo kóimeterion, un dormitorio in attesa di un risveglio.
Quel ‘dormitorio’ sembra sollecitare in tutti – anche in quelli che non oserebbero mai ammetterlo – la consapevolezza che il mondo visibile che i nostri occhi contemplano non è il tutto dell’uomo, che c’è una comunione che continua con i nostri cari, che esiste una tensione tra la situazione presente e il futuro, che è bene prolungare lo sguardo al di là della realtà terrena (ciò traspare ancora nel pellegrinaggio di popolo che moltissimi compiono nel giorno della commemorazione dei defunti).

3. Perché il contesto urbano manifesta parecchie difficoltà nell’esprimere la pietas verso i morti?
Potremo dire che la città non può permettersi il lusso di onorare i morti, almeno nel senso tradizionale. Anche perché non è abituata a onorare i vivi.
La doverosa cura medico-ospedaliera dei malati rende sempre più ardua la loro cura umana, anche da parte dei parenti e degli amici.
È difficile nelle condizioni attuali esprimere la vicinanza all’ammalato e al morente: una rapida visita all’ospedale non è in grado di esprimere la vicinanza e soprattutto non è in grado di accompagnare la persona cara nel suo cammino verso la morte.
Anche la pastorale sembra aver rinunciato a questo servizio che, un tempo, come ben sappiamo, era proprio uno dei compiti peculiari del ministero del prete.
L’accostamento personale del prete accompagnava il malato nella sua malattia, fino al momento culminante dell'ultima visita al moribondo per portargli il viatico.
Oggi l'accompagnamento di chi muore è quanto mai problematico e l'azione pastorale è ben più difficile. La morte, si dice, è censurata, ma è rimosso, anche pastoralmente, l’accompagnamento.
Proprio in questo momento grave e delicato della vita emergono con evidenza quei tratti tipici della morte giustamente qualificata come ‘selvaggia’.
La mancanza di legami con una comunità, l’eccessiva burocratizzazione del morire, la censura e la rimozione nei confronti della morte, il processo di laicizzazione: tutto questo rende problematico, se non impossibile, il servizio così prezioso dell'accompagnamento, che richiede tempo, pazienza, silenzio e attesa, per offrire vicinanza, amicizia, condivisione, e quindi per assicurare fino all’ultimo speranza e fiducia.

4. Sembra dunque che nel contesto urbano la pietas abbia poco spazio per essere espressa con un po' di verità. Ed anche l’azione pastorale ha poco spazio per essere attuata.
Tuttavia, pur nella povertà di tempo, di disposizioni e di convinzioni, è possibile attraverso qualche angusto varco far sentire a chi muore, per lo più solo, spiritualmente solo, la grazia della presenza e il dono di una compagnia.
E soprattutto si ha possibilità di offrire il grande dono della liturgia cristiana a chi è morto, ai parenti, agli amici e alla comunità intera.
La liturgia è ‘grazia’: essa può raccogliere le sofferte storie del morire dell'uomo, le sue domande e attese, le lacerazioni e le angosce, e, attraverso un rito ricco di parole e di gesti simbolici, offrire senso e redenzione.
Nel nostro contesto culturale di rifiuto della morte e dei suoi segni, la liturgia cristiana offre la possibilità di dare visibilità ed espressione sociale al morire con tutta la profondità dell'umano di cui è carica.
Il funerale è una preziosa opportunità pastorale per dire attraverso una intensa liturgia la verità del Vangelo della Pasqua, una verità che riguarda non solo quelle persone che partecipano al funerale ma arriva ad interpellare anche il quartiere della città: la morte è di tutti e tutti accomuna e affratella.
In un contesto culturale di deritualizzazione generalizzata, che interessa soprattutto la morte, il rito è un atto che ha in sé un valore grande.
Ma la ritualità va presa sul serio.
La preparazione della liturgia inizia già nell'accoglienza in occasione del primo contatto con la famiglia del defunto: è un momento di grande intensità sia umana che pastorale, in cui l’indigenza umana ha il suo momento più intenso proprio nell’evento della morte.
È necessario rispettare la profonda umanità della morte e del lutto, non scavalcando, con troppa superficialità, l’avvenimento di separazione e di vuoto.
Si tratta sempre della morte di una persona singolare per la sua storia, per i suoi legami più cari. La verità umana di quella morte chiede di essere raccolta e consolata.
Per molti partecipanti poi il funerale è una delle poche occasioni per sentire la vicinanza del Signore della vita o comunque per sentirsi coinvolti intorno alle grandi domande o toccati in profondità da un’amicizia che si è interrotta.
La celebrazione deve avere questo respiro umano per esprimere tutta la verità del vangelo pasquale.
La liturgia esprime tutto questo in tanti modi, attraverso il linguaggio dei segni e dei simboli.
Ma nella liturgia dei funerali il primo segno è precisamente il corpo del defunto in mezzo all'assemblea. È questo un segno estremamente significativo.
La pietas cristiana esprime in questo modo non solo rispetto ma anche venerazione.
La liturgia vuole significare il legame esistente tra il corpo dell'assemblea e quel corpo morto, passando attraverso il corpo del Risorto: un'alleanza che non avrà fine.
Tutti gli altri simboli convergono verso questa alleanza da rinnovare proprio nel momento in cui si esperimenta il limite: la luce pasquale del cero che annuncia la vita nuova con cui il Signore ci accoglie, la croce segno di Colui che ha attraversato la morte, l'acqua benedetta nella quale l'uomo si reimmerge per rinascere, il gesto dell'incenso che ricorda il misterioso significato del corpo umano, il Libro che contiene le parole di speranza, il pane e il vino, cibo e bevanda del pellegrinaggio, l'assemblea dei fratelli che prefigura quella fraternità che il Signore ci donerà.

† Mons. Gianni Ambrosio,
Vescovo Piacenza-Bobbio

01 aprile 2008


pubblicazione: 24/10/2008

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