di Carlo Galli, Libertà del 9/10/2005
La riforma della legge elettorale sta avvelenando il finale di legislatura. Un governo debole, che non riesce a farsi obbedire dal governatore della Banca d'Italia, che sta cercando di salvare dalla prigione personaggi importanti e che è disposto a finire di distruggere, per questo, il sistema giudiziario, che sta preparando una legge finanziaria che affonda i conti degli enti locali e che non avvia neppure la soluzione di nessuno dei problemi dell'economia del Paese (e che pure riesce ad ammorbidire le posizioni di Confindustria grazie a uno sconto sul costo del lavoro),
Ebbene, questo governo sta cercando di modificare la legge elettorale maggioritaria e di trasformarla in proporzionale. E reputa questo il proprio principale obiettivo politico, tanto importante da valere il rischio di un conflitto sanguinoso con l'opposizione, di una delegittimazione di tutte le cariche politiche di garanzia come le presidenze dei due rami del Parlamento. Presidenze chiamate a garantire e a benedire il nuovo corso elettorale. E a rischiare perfino di uno scontro col Quirinale sulla costituzionalità di alcuni passaggi della legge.
Qual è il motivo di questo accanimento degno di miglior causa, di questa volontà riformatrice del tutto immotivata e estemporanea? È presto detto: alle finalità politiche interne alla maggioranza - dare una soddisfazione formale ai centristi col proporzionale, e al contempo legarli alla Casa delle libertà con il premio di maggioranza - si aggiungono sostanziosi guadagni nei riguardi dell'opposizione: scompaginare l'opera di tessitura unitaria di Prodi col rilancio dei partiti, mettere in forse la leadership del Professore che improvvisamente diventa bisognoso di un collegamento a una forza politica, boicottare la sua faticosa ricerca di legittimazione attraverso le elezioni primarie, rese inutili dal sistema proporzionale. E soprattutto modificare - grazie alle soglie di sbarramento - la presunta maggiore rappresentatività del proporzionale, fino a rendere possibile la vittoria di uno schieramento che abbia meno voti dell'altro, ma concentrati su partiti di maggiori dimensioni, tali da superare, appunto, gli sbarramenti.
Ma non è questo l'unico difetto della legge: il “premio” verrà distribuito in modo diverso fra Camera e Senato, il che potrebbe portare al formarsi di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento; il blocco delle liste dà a dieci segretari di partito il diritto di scegliere, di fatto, mille rappresentanti del popolo; la strada intrapresa dall'Italia dal 1993 si blocca senza una reale necessità, e si ritorna a un mondo politico centrato sui partiti, che nel frattempo hanno perduto rappresentatività e legittimità.
La politica sarà così ancora più distante e incomprensibile per la maggioranza degli italiani. Eppure la legge si farà, con ogni probabilità: perché grazie a essa il centrodestra pensa di potere attutire le conseguenze della sconfitta elettorale del prossimo anno, che con l'attuale sistema elettorale lo farebbe quasi sparire dalla geografia politica del Paese; perché pensa di consegnare al vincitore un sistema reso ingovernabile dalla riforma elettorale proporzionale, e quindi di potere così rientrare nel gioco politico, divenendo, pur da minoranza, indispensabile per garantire la governabilità; insomma, per mantenere i vincitori deboli e sotto costante ricatto, con tanti saluti allo sbandierato diritto di chi vince le elezioni a governare con sicurezza e con piena responsabilità.
Per salvare una quota del proprio potere, insomma, il centrodestra fa terra bruciata della coerenza, del buon senso, della governabilità; ne ha legalmente diritto, certamente, ma fa anche correre gravi rischi all'Italia tutta: la privatizzazione della politica - tratto distintivo del centrodestra - raggiunge qui uno dei propri vertici storici. Se la prossima legislatura sarà incerta, instabile, debole e confusa sappiamo già chi ringraziare.
Non è per nulla certo, infatti, che la dura reazione del centrosinistra - culminata nella manifestazione di oggi a Roma - abbia un qualche effetto immediato, oltre che quello di mostrare ancora una volta la capacità di mobilitazione, ma anche le asimmetrie e le dissonanze, dei Ds, di Rifondazione e dei “movimenti”.
Mentre è del tutto certo che questo indebolimento della politica ha già dato i suoi frutti, anche in una serie di cedimenti dello Stato davanti alla sempre più forte spinta neotemporalistica delle gerarchie ecclesiastiche: dopo la vicenda dei referendum, dopo il No ai Pacs (coppie di fatto), si deve ora registrare l'esenzione dall'Ici degli immobili commerciali della Chiesa (un bel regalo del centrodestra) e la recentissima minaccia di negare i sacramenti a quei politici che perseguano linee di azione sgradite al Vaticano. Un regresso - se la proposta di un cardinale venisse confermata e accettata dagli organi responsabili della Chiesa - a un fondamentalismo oltranzistico antistatuale che è spiegabile solo con la percezione che si ha Oltretevere di un collasso dell'etica pubblica e della legittimità della politica nel nostro Paese.
Non solo la crisi economica, quindi, ma anche la crisi dello Stato e della sua autonoma laicità, potrebbe essere il frutto avvelenato di una politica che sembra non riuscire a sottrarsi alle logiche di parte, e a riferirsi a valori e interessi collettivi. Carlo Galli (Libertà del 9 ottobre 2005)
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