di Gian Antonio Stella
«Quando sei lì fai quello che vuoi. E i ministri della Lega le riforme le fanno subito per subito». Era convinto di aver già tutto in tasca, Umberto Bossi, alla vigilia delle elezioni vittoriose del 2001: «Il Parlamento non andrà in vacanza se entro agosto non sarà approvata in prima lettura la devolution». Tre anni dopo, il suo addio a quel ministero delle Riforme che aveva fortissimamente voluto, è insieme l' ammissione di una sconfitta, politica prima ancora che fisica, e il ruggito del leone ferito che con quel po' di forze che è riuscito a recuperare tenta di azzannare gli amici-nemici di una vita, Alleanza Nazionale e i neo-democristiani, accusati di «un palese tradimento». Forse ci credeva davvero, il Senatur, alla possibilità di imprimere una svolta netta alla politica italiana. O forse, già introdotto a tutti i trabocchetti di quello che il Cavaliere chiama «il teatrino», voleva solo far coraggio a se stesso e ai suoi. Come quando, vari mesi dopo esser salito sull' auto ministeriale (verde bottiglia per marcar la differenza con quelli cui aveva per anni contestato l' auto blu) ancora prometteva: «Arriveranno disegni di leggi potentissime, che solleveranno polemiche a non finire. Subito dopo Natale sentirete esplodere con un rombo di tuono la legge sulla famiglia!». Oppure: «Entro l' estate sarà pronta la devolution, poi metteremo ordine nello Stato centrale e alla fine arriverà il federalismo fiscale!». «Via libera, il processo è irreversibile!». Certo è che pochi giorni prima di essere colpito dall' infarto che l' ha messo fuori gioco, sembrava aver perso larga parte della sua balda sicurezza di portare a casa ciò che si era proposto accettando di schierarsi una seconda volta, contro il volere di una larga fetta del suo partito, con quella destra che per anni aveva coperto di accuse, ironie, insulti. Basta rileggere quando disse a Telepadania poche ore prima di essere ricoverato in rianimazione: «Aspetterò fino all' ultimo e spero che si arrivi al federalismo anche se devo tener a freno molti dei miei che scalpitano perché dopo quasi tre anni di governo non si è ancora arrivati all' obiettivo». Con il Corriere era stato ancora più esplicito. «Ho il timore che la mia esperienza riformatrice si stia esaurendo», aveva detto: «Se io, Umberto Bossi, resto nel governo le riforme si fanno? Se io, Umberto Bossi, esco dal governo cosa accade? Su questo sto ragionando. Bisogna tornare ad una Lega di lotta? Di certo per avere le riforme occorre tornare alla piazza e alla strada». E aveva chiuso: «Vogliono distruggere me e con me le riforme. Se tolgo il disturbo salvo le riforme? Ecco il busillis». Nella sua ultima intervista, alla Stampa, era stato ancora più brusco: «Ci siamo rotti le scatole». Aveva anzi fissato una scadenza, il 28 marzo, termine ultimo per andare, in caso di rottura, alle elezioni anticipate: «O si risolve la questione del federalismo o la Lega non ci sta più. O il Nord vede arrivare lo Stato federale oppure riprende la via della lotta di liberazione, della secessione». E aveva minacciato: «Questa è l' ultima possibilità di mediazione, il federalismo è l' ultima possibilità per tener unito il Paese. Se non arriva, se in questi giorni la situazione non cambia, non si sblocca, il Nord si muoverà e il costo potrebbe essere altissimo». Sempre stato così, l' Umberto. Un misto di parole dinamitarde e finezze strategiche, di svolte epocali e rapidi contrordini, di brutali forzature e sorprendenti ragionevolezze, di minacce apocalittiche e spregiudicati compromessi. Nella totale indifferenza per le accuse di incoerenza, davanti alle quali ha sempre fatto spallucce: «La Lega deve essere politicamente scorretta, perché se anche noi leghisti fossimo politicamente corretti, in questo Paese non cambierebbe mai nulla». Mani libere, sempre. Libere prima di issare Silvio Berlusconi su un piedistallo per poi buttarlo giù e riempirlo di botte («È un mostro anti-democratico», «Un suino», «Un brutto mafioso che guadagna i soldi con l' eroina e la cocaina». «Un cornuto». «Un delinquente». «Un nazista») nell' attesa di tornare all' alleanza come niente fosse: «La scelta di farlo cadere fu un equivoco». Non sarebbe successo di nuovo, dopo la vittoria del 13 maggio? Ma per carità: «L' alleanza con Berlusconi è a prova di bomba atomica». Al punto di sfiorare, nel giudizio sul Cavaliere a Palazzo Chigi, l' agiografia: «Siamo stati i migliori. Nessuno ha fatto una politica migliore del nostro governo, tranne gli Stati Uniti. Ma loro hanno l' Impero». Per non dire dei rapporti con Gianfranco Fini («Lo stalliere di Berlusconi») e quelli di An: «Andremo a prendere i fascisti casa per casa», «Noi i fascisti li attaccheremo sempre perché sono uomini del vecchio regime: li teniamo sotto il tiro del nostro Winchester». Quanto ai neo-democristiani e ai socialisti, restano in archivio collezioni di insulti sanguinosi. Uno su tutti: «Gente da tirare giù, da portare in piazza e fucilare, perché quando uno porta il Paese al fallimento lo si fucila». Eppure, paradosso dei paradossi, nonostante le tensioni create nei rapporti con la Chiesa («È ora di mandare la Finanza in giro da certi vescovoni per sapere se i soldi raccolti per i poveri vanno veramente a quelli»), con l' opposizione («sono loro, le sinistre, i nuovi nazisti!»), con la Ue («È ora di finirla con l' Europa dei tecnofili, i tecnocrati alleati dei pedofili») e volta per volta con questo o quell' alleato, il giorno che la moglie Manuela lo portò in coma all' ospedale, fu chiaro a molti che da quel momento al governo veniva a mancare non la testa matta destabilizzante, ma il perno di una complicata stabilità. Era o non era stato, l' Umberto, al di là delle risse e dei cazzotti e delle dichiarazioni esplosive, l' uomo che aveva garantito la compattezza totale della Lega, voto dopo voto alla Camera, prima al governo Dini e poi al Berlusconi secondo? Il primo a rendersene conto, non per niente, fu il Cavaliere. Che all' uscita dalla veglia di preghiera organizzata dal Carroccio a Pontida tre giorni dopo il ricovero, disse con voce rotta dall' emozione: «Bossi è il mio amico più caro». Una affermazione impegnativa. Che i leghisti accolsero con una smorfia di diffidenza. La Padania titolò stizzita: «Presidente Berlusconi, l' amicizia è rispettare i patti». Eppure, a modo suo, aveva ragione Sua Emittenza. Senza «l' amico Umberto»...
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