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martedì
5
dicembre
2023
San Giovanni Damasceno



GRANDE COALIZIONE ?

Per tutte le stagioni
di MARCELLO SORGI


Salutata dagli alleati con riserve e perplessità, e dagli avversari come un regalo inatteso (la demolizione della Casa delle libertà invece che quella annunciata, e poi mancata, del governo), la svolta di piazza San Babila, la decisione di Silvio Berlusconi di fondare un nuovo partito, in grado di intercettare, da solo, la maggior parte dei voti del centrodestra, s’è imposta subito al centro dell’attenzione.
Dopo averlo considerato un gesto estremo, l’ennesimo colpo di teatro di un leader che ha molta familiarità con il palcoscenico, tutti si chiedono a cosa punti veramente il Cavaliere.

Com’è evidente, non si tratta solo di un tentativo di camuffare la sconfitta subita al Senato sulla finanziaria.
Berlusconi covava da tempo la svolta, almeno da quando ha cominciato a seguire con preoccupazione la fondazione del Partito democratico nel centrosinistra.
In qualche modo, anzi, è come se avesse voluto ripercorrerne il processo.
Poiché a sinistra la spinta è venuta da un nuovo ceto politico, all’interno del quale non c’erano più distinzioni di appartenenza tra un partito e l’altro, il Cavaliere, convinto che anche nel centrodestra era accaduta da tempo una cosa analoga, ha premuto nella stessa direzione.

Con la convinzione che la sconfitta di misura alle elezioni del 2006 e la crescente impopolarità delle scelte del governo Prodi motivino fortemente i suoi elettori e pongano le premesse per una rivincita.
In un certo senso, Berlusconi si sente direttamente incaricato dalla sua gente di guidare la riscossa.

Di qui, appunto, la campagna che ha condotto senza tregua contro il governo, le incomprensioni, via via approdate alla rottura, con i suoi alleati portatori di una linea più trattativista, fino alla convinzione che l’epoca del bipolarismo e delle coalizioni, a cominciare dalla Casa delle libertà, sia finita, e sia venuto il momento di tornare al proporzionale e al libero gioco delle alleanze in Parlamento.

Alla medesima conclusione, sulla base dei risultati controversi del governo, spesso paralizzato dai veti della sinistra radicale e dei partitini centristi, sarebbe ormai arrivato anche Walter Veltroni: Berlusconi ne è sicuro.
E ne ricava che la competizione vera, di qui a poco, si giocherà tra i due futuri partiti di maggioranza relativa: il Pd e il Pdl.

Se le premesse sono giuste e se dall’altra parte dovesse trovare ascolto, una logica come questa, nell’ordine, può portare rapidamente: a un accordo sulla legge elettorale - un proporzionale con soglia di sbarramento per i partiti minori - più simile, nei disegni del Cavaliere, al sistema tedesco che a quello spagnolo; a evitare il referendum ormai prossimo; e ad arrivare a uno scioglimento delle Camere e al voto anticipato già nel 2008.
Berlusconi ritiene che il centrosinistra, più del centrodestra, sia pressato dalla scadenza referendaria, rispetto alla quale i partiti minori dell’Unione già minacciano crisi di governo.

E lascia intendere che non esclude, in caso di difficoltà, dopo le elezioni, a trovare un assetto stabile di governo, di offrire il proprio appoggio a una grande coalizione, come quella di cui ha parlato di recente Gianni Letta, fondata sull’accordo tra i due partiti maggiori come in Germania, e destinata a portare a conclusione la stagione delle riforme.

Dalla Seconda Repubblica, costruita sul maggioritario e sul bipolarismo, a una Terza che torni al proporzionale, archivi la stagione delle coalizioni e recuperi il meglio della Prima, certo, ne corre.

Come protagonista della stagione inaugurata quattordici anni fa e come uomo-cardine di una transizione infinita (in fondo, sono quasi tre lustri che si ragiona in termini di «pro» e «contro» Berlusconi), il Cavaliere, ansioso di scrivere una pagina nuova, forse non ha calcolato bene gli effetti della riscoperta del regime dei partiti.

Lasciamo stare - ci saranno e si faranno sentire anche in un partito leaderistico e semirivoluzionario come Forza Italia - le ovvie resistenze delle strutture, il salto nel vuoto delle burocrazie locali, che si ritrovano un’altra volta di fronte al fatto compiuto.

Ma come la mettiamo con le giunte?
Nelle città e nelle regioni dove il centrodestra governa con l’appoggio degli alleati, non è pensabile che An, Udc e Lega restino indifferenti, con la prospettiva di ritrovarsi a breve con un nuovo e minaccioso concorrente che punti a svuotarli dei loro elettori.

La storia insegna, nel sistema proporzionale tutto si tiene, e ogni colpo al centro ha subito una ripercussione in periferia.
Più in generale Berlusconi dovrebbe riflettere, e valutare, se sia possibile ancora per lui presentarsi come un uomo nuovo, l’uomo di un’altra stagione, senza rischiare di diventare presto, anche agli occhi dei suoi fan, un uomo per tutte le stagioni.
(da La Stampa del 20 novembre 2007)




Il nuovo asse
di Piero Ostellino


Due soli uomini al comando.
Walter Veltroni e Silvio Berlusconi.
Già Veltroni, enunciando la «vocazione maggioritaria» del Partito democratico, aveva di fatto escluso l'intenzione di presentarsi alle prossime elezioni unito con le sinistre radicali in una «coalizione di guerra» (l'Unione), buona per sconfiggere il «nemico» ma, come attesta il governo Prodi, poco funzionale per governare.

Ora è la volta di Berlusconi a liquidare la «coalizione di guerra» di centrodestra (la Casa delle libertà) che scarsi risultati aveva dato nei cinque anni di governo dopo il successo del 2001.
Licenzia i suoi alleati e scioglie il suo stesso partito (Forza Italia) per fondarne un altro (il Partito della Libertà o Popolo della Libertà) col quale presentarsi «con chi ci sta» o, se necessario, da solo, a governare il Paese.

Se la strada delle loro buone intenzioni sarà lastricata con un sistema elettorale adeguato, che cancelli l'attuale bipolarismo imperfetto («Il bipolarismo, con queste forze politiche, non è più possibile», ha detto Berlusconi), forse si profila una salutare semplificazione del sistema politico.
Chiunque vinca si sceglierà gli alleati di governo non prima — col rischio di consegnarsi nelle mani dei piccoli partiti — bensì dopo le elezioni sulla base della loro adesione al proprio programma.

Il Ppl e il Pd sono ora le due facce della stessa medaglia.
Molto dipenderà dal sistema elettorale che ne verrà fuori.

E qui sta l'altra novità.
Come già era accaduto in occasione del varo della Bicamerale promossa dallo stesso Berlusconi e presieduta da Massimo D'Alema, è ancora una volta Berlusconi che assume in proprio il comando nei negoziati con il centrosinistra, marginalizzando Alleanza nazionale, l'Udc e la stessa Lega.
Per Berlusconi, dopo la sconfitta elettorale, era questione di vita o di morte.
Per una sorta di legge del contrappasso, Fini, Casini, Bossi, che — dopo la fallita «spallata » al governo Prodi — lo avevano messo sotto processo e si erano resi disponibili a trattative con Veltroni sulle riforme, ora ne sono esclusi dallo stesso Berlusconi.
In tale contesto, era del resto naturale che nascesse un asse preferenziale fra i due partiti maggiori, i cui interessi sono incompatibili con quelli dei partiti minori delle due coalizioni.
D'altra parte, la rottura con la logica delle «coalizioni di guerra» mette sia Berlusconi sia Veltroni di fronte alle loro responsabilità.
Nessuno dei due potrà d'ora in poi accusare i propri alleati di avere loro impedito di essere ciò che asseriscono di voler essere.

Per Berlusconi si tratta di far emergere — ammesso che l'abbia — la tanto sbandierata vocazione liberale e di farne la propria piattaforma elettorale e di governo.
Per Veltroni, specularmente, si tratta — ammesso che lo voglia — di dare alla sinistra di governo un volto e un programma riformisti al passo con i tempi. L'augurio è che ci riescano. Dopo di che vinca il migliore.
(Corriere della Sera del 20 novembre 2007 )


pubblicazione: 20/11/2007

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