di Giuseppe De Rita
Leggendo le 20 pagine della relazione che Piero Fassino ha svolto venerdì scorso alla direzione del suo partito viene immediato il sospetto che solo la sua innata prudenza gli abbia impedito di esplicitare un duplice pensiero dominante: la rivendicazione di aver visto giusto negli ultimi anni in termini politici ed elettorali; e la consapevolezza di dovere intensificare il radicamento sociale del partito. Aveva certo ragione lui quando, diventando segretario nel congresso di Pesaro, si impose come obiettivo primario il rilancio di un partito allora smarrito e incerto, nella convinzione (oggi codificata) che in Europa il sistema politico si organizza su un blocco progressista e un altro conservatore. Nella convinzione che ognuno dei due blocchi si configura come alleanze di più forze e non come partito unico; e che ogni alleanza ruota «sul pilastro di una forza politica di grande dimensione elettorale e di largo radicamento sociale». Avendo lavorato su questa logica, oggi può orgogliosamente guidare «il partito italiano a più largo radicamento sociale ed elettorale». Fra le due citazioni virgolettate corre qualche pagina e si spende molto incenso su eventuali passi federativi a sinistra; ma la loro coincidenza letterale fa intendere la precisa determinazione della strategia fassiniana: far diventare i Ds riferimento centrale del blocco di centrosinistra. Nessun dubbio che i Ds siano il partito a maggior radicamento elettorale; ma si può sollevare qualche dubbio che essi abbiano un altrettanto largo radicamento sociale. Fassino sa bene che non si farà politica in Italia nei prossimi anni se non si riesce a condensare la frammentazione sociale, se non si riesce a ritessere la rappresentanza sociale (contro il leaderismo carismatico, oggi peraltro in crisi), se non si parla a un blocco sociale di riferimento, se non si capisce come tale blocco sociale si articola sul territorio, se non si riesce a seguire il destino dei diversi territori (dal Nord Est al Mezzogiorno). E sa bene che neppure il più orgoglioso primato della politica può fare a meno di queste componenti sociali e territoriali. Ma se non va oltre la sua relazione di venerdì, il conclamato radicamento sociale del partito potrebbe restare ipotetico ed improbabile; non ci si ritrova infatti una pur minima traccia culturale per capire a quali gruppi professionali, a quali ceti, a quali interessi, a quale blocco sociale, a quali logiche di classe (se il classismo non è ormai estraneo ai democratici di sinistra) ci si vuole rivolgere. Sembra quasi che possa bastare la spinta coalizionale, la scelta riformista, un grande patto per lo sviluppo, una convenzione programmatica; ma non è dato di sapere per chi e con chi si vuole lavorare. Non basta dire che nell' alleanza ci saranno «i settori più illuminati e dinamici delle professioni, delle imprese, del lavoro e del sapere»; se resta così, la definizione di un nuovo e vincente blocco sociale è un po' troppo povera ed indistinta. Forse, se fosse stato libero di far pienamente il suo giuoco di partito, il segretario diessino avrebbe dato spazio ad un impegno anche sociopolitico oltre che di strategia elettorale; oggi resta invece vittorioso ma povero, e sarebbe bene che non resti ancora troppo prigioniero dell' obbligo del fare comunque coalizione, anche quando questa non ha blocco sociale di riferimento
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