Dalle aree militari, alla logistica, al Po: cosa ci lasciamo alle spalle e cosa stiamo cercando
Il sindaco Roberto Reggi ieri non c'era all'appuntamento con le Fabbriche della Felicità nel salone del Gotico, sempre in penombra eppure brillante di restyling. Reggi è a Salisburgo, insieme al maestro Riccardo Muti.
Ma se ci fosse stato, si sarebbe sentito su un "ring". Anche se fra amici.
Il tema delle trasformazioni urbane, passando per la logistica, le aree militari, la viabilità, l'inquinamento, è tra i più sofferti e combattuti in città. E trascina con sé la visione sul futuro della comunità piacentina.
Al tempo. La prima bordata si fionda nel bel mezzo della polemica nascente: «Palazzo Uffici? E' un palazzo inutile» scandisce l'ex sindaco Giacomo Vaciago che il moderatore Flaviano Celaschi (ordinario di design al Politecnico di Torino), definirà sindaco di "rottura". Oggi, spiega Vaciago «le città virtuose sono virtuali». Meno macchine, meno spostamenti, meno uffici, più telematica. Ecco la ricetta per la pubblica amministrazione. Sbagliata, dunque, l'idea di costruire uffici quando la tendenza, Banca d'Italia docet, è di chiuderli, argomenta il professore e consigliere comunale di maggioranza. E si allarga a cono la sua analisi sulla comunità locale. Piacenza ha avuto nella storia un peso internazionale grazie al servizio reso alla Chiesa e all'Esercito. Aveva un'amalgama sociale che permetteva al borghese, al nobile, all'artigiano di abitare nella stesa casa. Ora, di fronte ai quartieri abitati da stranieri, si pensa a costruire case per delocalizzare migliaia di piacentini. La città? Vorrebbe essere «lontanissima periferia di una piccola metropoli quale è Milano». E' piena di magnifici «contenitori» a partire dall'ex Ospedale Militare («32mila metri quadrati e ci vive solo un colonnello medico...»), ma senza idee su che farne. E allora: «Come ridare alla città un ruolo che la storia le ha attribuito? Come ridarle uno scopo al servizio del mondo? Nessuno oggi cresce di per sé». Sia Milano al servizio di Piacenza, non il contrario. E sognare, avverte Vaciago, è indispensabile. Celaschi annuisce e sembra favorevole all'idea che ci siano "ambasciatori" piacentini in giro per il mondo a cercare opportunità da offrire a Piacenza, città meno da «costruire» e più da far crescere in relazioni.
Il presidente della commissione Aree Militari, Gianni D'Amo, ripete con chiarezza la sua posizione sull'occasione storica offerta dall'imminente dismissione di aree pregiate occupate dagli stabilimenti in grigioverde e per la quale si va ipotizzando un movimento imponente di denaro («400 o 500 milioni di reddito, di profitto»). Per costruire il nuovo stabilimento a le Mose, un investitore privato non può voler meno di 10 o 12 mila appartamenti in cambio da costruire («ma non pensati per la domanda degli stranieri»), destinati a 30-40 mila persone in più da far arrivare: «Io non sono interessato ad un'operazione di questo genere - prende le distanze - la città non sarà migliore. Il futuro non è quello». Un'alternativa: perché non pensare che lo Stato, dopo aver tanto preso da Piacenza, non restituisca semplicemente, alcune aree militari? Ce ne sono di vuote come l'ex Pertite.
Il consigliere d'opposizione Filiberto Putzu (Forza Italia), membro dell'associazione "Piacenza che verrà", avanza con il dubbio metodico: descrive una città sospesa fra tradizione e innovazione. Qualche anno fa fu innovazione, forse inevitabile, la logistica: «Che dà manodopera di scarsa qualità e con i suoi camion ha forte impatto sulle polveri fini». C'è il dovere di interrogarsi nuovamente sul futuro. Anche Putzu è perplesso di fronte all'ipotesi che si va profilando per le aree militari: avere migliaia di appartamenti in più, e magari 50 mila persone in arrivo. Meglio sondare il pensiero dei piacentini. Alla voce "tradizione", Putzu è più sicuro: c'è il Po, puntiamo a parchi attrezzati, al rilancio del canottaggio ad un porto interessante. Antico e nuovo insieme.
Infine, Umberto Fantigrossi (Laboratorio Urbanistica Partecipata) fa un passo "a monte". Il benessere? Mancano i presupposti se si pensa alla pessima qualità dell'aria che accomuna Piacenza, Milano, i paesi dell'Appennino. «Occorre lavorare fortemente sulle criticità ambientali» avverte. Il treno della «sostenibilità» forse è già perso ed è tempo di una «decrescita serena». E comunque improntata al riuso dei contenitori esistenti, come dispone la Legge regionale 20 evitando altro cemento. «Anche se non sappiamo la direzione giusta da intraprendere, devono decidere i cittadini, certe scelte non appartengono agli accordi di programma». Prima di tutto: un metodo partecipativo forte. Poi la punzecchiatura sui "comitati del no" evocati dall'assessore Carbone. «Possono diventare comitati del sì, plaudenti, se li si ascolta per tempo e si realizzano scelte sociali».
Tra il pubblico, unica voce di controcanto dell'Amministrazione, prende da ultimo la parola proprio l'assessore Pierangelo Carbone. Le trasformazioni urbane? Ovunque in Italia nascono comitati per opporsi ad accordi di programma, constata. E così a Piacenza: «Vedo troppa paura di futuro, troppo conservatorismo cautelativo - commenta - domina il non toccare nulla, il resistere al cambiamento». Un conflitto di sempre.
Patrizia Soffientini patrizia.soffientini@liberta.it Libertà, 11/05/2008
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