di MARCELLO SORGI
Dopo la condanna definitiva al carcere subita dalla Corte di Cassazione, Silvio Berlusconi ha una sola strada davanti a sé. Prendere atto della parola «fine» scritta dai giudici della Suprema Corte e gestire al meglio la sua uscita di scena, il famoso «passo indietro» che promette da anni e una volta arrivò anche ad annunciare in tv, salvo poi rimangiarselo dopo due giorni. Se lo farà, ci vorrà un po’ di tempo a capirlo, anche se da tempo il leader del centrodestra è consapevole che la sua stagione s’è chiusa. A giudicare dal video messaggio diffuso ieri sera, non sembra che il leader del centrodestra ne abbia alcuna intenzione, al momento.
Ma non bisogna dare troppo peso alle parole, dette a caldo, da un uomo tramortito, che fino all’ultimo aveva sperato di cavarsela, ed ora deve scegliere tra carcere, arresti domiciliari o affidamento ai servizi sociali. La questione vera non è se Berlusconi deciderà di farsi da parte, e neppure quando; ma soprattutto, trattandosi di un uomo come Berlusconi, come lo farà.
In altre parole, se davvero ha deciso di adoperarsi per salvare il governo, scaricando furbamente sul Pd il compito di trovare il modo di continuare la collaborazione con un centrodestra guidato da un pregiudicato per frode fiscale, la battaglia contro la giustizia politica, che ha annunciato di voler riprendere subito, non potrà essere condotta com’è avvenuto in tempi recenti, con manifestazioni sui gradini dei palazzo di giustizia e slogan incendiari.
E neppure con accuse alla magistratura di essere «irresponsabile», come Berlusconi ha detto ieri, o «cancro della democrazia», come l’aveva definita qualche settimana fa. Così facendo, infatti, il governo non dura neppure una settimana, e la stessa legislatura va a rischio.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la sentenza contro Berlusconi abbia un contenuto e un peso politico. E che la condanna al carcere dell’uomo-simbolo di questo ventennio faccia calare il sipario sulla Seconda Repubblica né più né meno come già accadde per la Prima. La consapevolezza di uno squilibrio che ha visto poco a poco soccombere il potere politico rispetto a quello della magistratura è diventata via via sempre più evidente ed è salita in questi anni ai più alti livelli delle istituzioni, fino al Quirinale. Non è un caso che il Capo dello Stato, prima ancora che il verdetto della Cassazione fosse reso noto, abbia voluto ricordare che il problema esiste, ed è venuto il momento di risolverlo.
Ma per trovare la soluzione occorrono due cose. Berlusconi per primo, e con lui tutti i leader politici che hanno a cuore la questione, devono prendere atto che non si può affrontare una questione così delicata restando appesi al destino dei singoli. Anche perché, a parte Berlusconi, dai politici negli ultimi anni sono venuti una serie di cattivi esempi, sparsi su tutto il territorio nazionale e un po’ in tutti i partiti, che hanno convinto l’opinione pubblica, non tutta ma non sempre a torto, che la politica sia diventata quasi solo un sistema per arricchirsi e accaparrarsi privilegi.
La seconda cosa necessaria è che il centrosinistra, e principalmente il Pd, rinuncino alla tentazione di una gogna. Le difficoltà a cui va incontro il partito di Epifani sono evidenti: alla sua sinistra, Sel e Movimento 5 Stelle si preparano a condurre una battaglia parlamentare per la decadenza di Berlusconi da senatore, anche prima che la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, come ha deciso la Cassazione, sia rideterminata dalla Corte d’appello di Milano. E al suo interno è destinato a ingrossarsi il fronte che preferisce la scorciatoia, basta governo di larghe intese e ghigliottina per il Cavaliere. Non sarà facile, in questo clima, far sì che prevalga la razionalità e sia sciolto finalmente il nodo del rapporto tra politica e giustizia. Eppure bisogna provarci lo stesso.
Marcello Sorgi, La Stampa.it
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