di STEFANO SEMERARO
Degli All Blacks non ha paura. Non ne aveva quando doveva affrontarli in campo, Pierre Berbizier, da mediano di mischia e capitano della Francia. Figuriamoci se si fa impressionare dagli Uomini Neri stando in tribuna. «Non è un problema affrontare gli All Blacks nella prima partita», dice con il suo sorriso candido e furbo insieme, trasparente e impenetrabile. «Tanto dobbiamo affrontarli comunque, no? Sarà un onore, per noi. Un’occasione per crescere». Il neozelandese John Kirwan, da ct azzurro, quando si ritrovò di fronte i connazionali alla Coppa del Mondo, buttò sull'erba le riserve. Berbizier ha scelto i titolari, ad eccezione di Pez e Canale. E che gli All Blacks si accomodino pure.
«Ai Mondiali quello che importa è esserci. E divertirsi», spiegava durante il ritiro in Val d'Aosta.
«Lo dice uno che da allenatore nel'95 si sentì derubato nella semifinale contro il Sud Africa, e che nell'87, da giocatore, perse una finale (ma segnando una meta, l'unica dei francesi, ndr). Il vero dramma però fu nel '91, quando mi lasciarono a casa: allora capii che ai Mondiali conta soprattutto arrivarci».
Per Berbizier i Mondiali di Francia saranno il canto del cigno sulla panchina dell'Italia. Ha raccolto una squadra che sotto Kirwan aveva trovato una logistica ma non un gioco, non un’anima, e l'ha trasformata - senza proclami, con grande pragmatismo - in una delle rivelazioni degli ultimi due anni. Si è ritrovato con poca stoffa da cucire: mischia forte, tre-quarti acerbi, mediana da inventare. Ha usato quello che aveva a disposizione. E l'ha usato al meglio, da sarto di qualità. Semplicità. Intelligenza. Adattabilità. Qualche lamento politico e «tattico» sparso qui e là, per spiegare ai poteri forti del rugby mondiale che non ci stava a essere trattato da povero. Uno sprazzo di pura irrazionalità, a Twickhenam quest'anno, quando prese come un segnale divino il ritrovamento di un foglietto con il numero 7, quello del suo mito e ispiratore Jacques Fouroux. Pochissima retorica. «Il rugby è uno sport di combattimento, ma il combattimento non basta», dice. Un generale nato, «Berbize», uno che sa essere terribile anche senza urlare, sedurre senza sbrodolare. Che dosa cuore e neuroni. Un Napoleone ovale.
Dall'Italia e da questi Mondiali, davanti al suo pubblico, vuole tirare fuori il meglio - che poi vuol dire passare il turno. Perché questo, sostiene, è il compito dell'allenatore. Ha imparato in fretta a parlare l'italiano - l'italiano un po' guascone di certi tecnici calcistici, che si divertono a nascondersi dietro gli strafalcioni quando non hanno voglia di regalare notizie - ma è la Francia che gli sta a cuore. In ritiro, da ciclista appassionato, programmava gli allenamenti dopo l'arrivo della tappa del Tour, la sera prima di dormire si leggeva la Storia di Francia di Max Gallo. Sulla panchina dei bleus negli Anni '90 ha vissuto anni importanti ma tormentati. Se ne andò sbattendo la porta, convinto comunque di essere il migliore, e forse ora, dopo l’esilio, cova la speranza di succedere a Laporte, quando il suo (odiatissimo) collega lascerà la panchina per trasferirsi al governo. Altrimenti se ne andrà al Racing, a Parigi, coccolatissimo (e pagatissimo) manager-allenatore di un club da rilanciare. Imboccando l'ultima curva verso i Mondiali, qualche mese fa, Berbizier deve aver visto la fine del suo lavoro italiano. Ci ha voluto bene - uno dei pochi francesi a volercene, nello sport -, ma gli andiamo stretti. Ha meno di 100 giorni a disposizione per vincere le ultime battaglie azzurre, cercherà di evitarsi - ed evitarci - una Waterloo. Ma all'Isola d'Elba, comunque, Napoleone Berbizier non aveva più voglia di rimanere
|