Il ricordo sessant'anni dopo.
La notte che precedette la liberazione di Piacenza fu spruzzata da un po' di pioggia. Al mattino lungo via Farnesiana, mentre i partigiani avanzavano a piedi con i fucili imbracciati, in un silenzio irreale il comandante Liberatore osservò il suo orologio da polso: segnava le 6.50.
Ricorda di quel momento Liberatore: «Avanza un uomo in bicicletta. Lo vedo ancora: tarachiato, sui sessant'anni, in abito da lavoro piuttosto dimesso. Giunto all'altezza della chiesa piega a sinistra e si dirige verso di noi. Scende, lascia cadere la bicicletta a terra e si accinge a parlare, ma non può, è commosso, singhiozza e poi racconta che i fascisti e i tedeschi sono scappati, lo ripete, sono scappati, la città e libera».
C'erano voluti venti mesi di guerra per liberare Piacenza dai tedeschi e dai resti della vecchia dittatura fascista confluiti nella Repubblica sociale. Per la prima volta dopo oltre vent'anni in Italia era tornata la libertà e la democrazia. Quella guerra di liberazione, civile e di classe costò alla nostra provincia 778 partigiani caduti in combattimento. I caduti erano nostri concittadini, ma erano anche cremonesi, milanesi, parmigiani, pavesi, napoletani, siciliani, bergamaschi, polacchi, russi, scozzesi, inglesi, americani, francesi... Perché il vero spirito della Resistenza era internazionale. Con l'ultima spallata del potente esercito angloamericano furono liberate prima Bologna, poi Modena, Reggio Emilia, Parma e prima ancora di Piacenza Milano. Sulla punta nord occidentale dell'Emilia si era infatti incardinato il piano di ritirata degli eserciti tedeschi. Un piano che era pronto e operativo fin dal '44 e che fu sfruttato in parte anche in quell'aprile '45 con l'operazione denominata dai tedeschi «Nebbia artificiale». Molti reparti riuscirono a ritirarsi ordinatamente al di là del Po. Altri fuggirono in una rotta disordinata, sfruttando gli ultimi traghetti disponibili che erano proprio a Piacenza e dintorni. Tutti i ponti erano stati fatti saltare per aria. I meno fortunati oltrepassarono il grande fiume con barche, zattere di fortuna, alcuni usando camere d'aria di ruote di camion e altri gettandosi a nuoto. Non pochi, traditi dalle forti correnti del fiume, affogarono. La Grande Fuga lasciò una scia di detriti e rottami: uniformi, carcasse d'automezzi, parti di motori o carrozzeria, cannoni resi inservibili, armi, uniformi, spalline, stivali, elmetti, quell'esercito se ne andava letteralmente in pezzi. Un ufficiale delle SS bloccato con la sua autocolonna sulla Caorsana dai partigiani della Valdarda gettò ai piedi dei ribelli delle montagne il cinturone con la sua pistola, sprezzante, poi improvvisamente dallo stivale estrasse una pistola e se là puntò alla tempia. Gli fu impedito l'estremo gesto.
Le SS italiane, con pezzi di artiglieria e blindati, affrontarono coraggiosamente i carri armati Sherman americani a Montale. E in uno dei tanti duelli di cannoni di quei giorni si verificò anche che un proiettile sbriciolò la base della Lupa a Barriera Roma che si sfracellò sull'asfalto. E la Lupa divenne il «cavallo» di tutti i monelli del rione, in attesa di essere rimontata dove ancora oggi si trova. Sparatorie e colpi isolati proseguirono per qualche giorno anche dopo la liberazione che costò ai partigiani oltre quaranta caduti, ai fascisti quasi cento, compresi coloro che furono fucilati. I veri artefici di quella giornata furono i vecchi antifascisti, e se ne possono ricordare alcuni: Rigolli per i socialisti, Daveri per i democristiani, Belizzi e Molinari per i comunisti, Canzi per gli anarchici. Una generazione di quaranta - cinquantenni che vissero sulla propria pelle l'esilio, il confino e le varie angherie di vent'anni di dittatura fascista con pestaggi, torture, esili, invii al confino o prigioni. Costoro, super ricercati dalle polizie tedesche e fasciste, furono la vera anima della Resistenza, alla quale molti non sopravvissero perendo nella tragica lotta. Quella generazione di «anziani» guidò le generazioni successive alla loro: ventenni e trentenni e anche adolescenti che arrivarono quel giorno a Piacenza. Idealmente, con quei ragazzi, c'erano anche tanti caduti su quella difficile strada che portò alla fine della guerra e che non poterono arrivare a quella giornata: Rigolli fu assassinato con un colpo alla nuca a Reggio Emilia. Daveri perì in un campo di sterminio nazista. Altri partigiani di cui abbiamo scritto non vissero quel giorno se non nell'abbraccio ideale con i compagni: il Ballonaio, Don Borea, Palo Araldi furono fucilati lungo il muro di cinta del cimitero di Piacenza. I fucilati di Coduro di Fidenza, i dieci fucilati alla fine di marzo a Piacenza per ordine del prefetto Graziani, i ventidue patrioti uccisi e gettati probabilmente nel Po. Il Valoroso ucciso in combattimento a Monticello a pochissimi giorni dalla Liberazione e tanti altri ancora.
Molti oggi sostengono che quella guerra avrebbe comunque portato alla sconfitta dei tedeschi e dei fascisti. Anche senza l'aiuto dei partigiani. E' certo che è così. Ma è anche certo che i partigiani lottarono per la libertà e la democrazia, conquistandola senza farsela solo “regalare” dagli Alleati. La Resistenza pagata con il sangue di tanti caduti fu il riscatto dell'Italia precipitata in oltre vent'anni di dittatura. Ermanno Mariani, Libertà del 25 aprile 2005
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